Seicento anni fa la “conca aquilana” da Pizzoli a Navelli fu scossa da quella che è passata alla storia come la “guerra dell’Aquila”. Spesso ne viene ricordato solo l’atto finale: lo scontro che avvenne venerdì 2 giugno 1424, dalle ore 8 alle 17, fra il capitano di ventura Braccio Fortebraccio da Montone e una lega militare composta da soldati del Regno di Napoli (regina Giovanna II), Stato Pontificio (papa Martino V), i Visconti di Milano e naturalmente gli aquilani guidati da un nome “mitico”: Antonuccio Camponeschi.
Come andò a finire quella battaglia è noto: Braccio scelse di combattere in campo aperto (fra Bagno, Monticchio, Onna e Bazzano), fu sconfitto, fu ferito e dopo un paio di giorni morì in una casupola contadina non lontana da Bazzano. Finì così il sogno che Fortebraccio aveva coltivato per anni, quello cioè di un regno tutto suo nell’Italia centrale con il fulcro in Umbria (era signore di Perugia) e con territori da sottrarre sia al papa che al Regno di Napoli (e l’Abruzzo aquilano era fra questi).
Se il 2 giugno 1424 fu la resa dei conti fra gli “alleati” e Braccio che ormai era diventato pericoloso per tutti (anche per i Visconti di Milano che in lui vedevano un ostacolo alle loro mire su Firenze) la guerra dell’Aquila ha radici che affondano a diversi anni prima e che gli studiosi inquadrano in due particolari contingenze storiche: la prima fu la lotta per la successione al Regno di Napoli con una Regina, Giovanna II (Angiò-Durazzo), che non aveva figli (e quindi eredi) e che tentennò a lungo per scegliere il successore fra Alfonso D’Aragona (a cui Braccio alla fine si era legato) e Luigi III D’Angiò del ramo angioino “doc”, ramo a cui gli aquilani erano da sempre rimasti fedeli (gli Angioini furono i veri fondatori dell’Aquila a fine XIII secolo). Antonuccio Camponeschi, il paladino dell’autonomia dell’Aquila, aveva rafforzato il legame con Luigi III grazie a una serie di matrimoni di suoi parenti con personaggi vicini agli Angioini.
La seconda contingenza storica fu il cosiddetto scisma d’Occidente che all’inizio del 1400 rischiò di mandare in seria crisi la Chiesa. Basti pensare che a un certo punto ci furono tre papi: uno romano, uno avignonese (anche se la cattività avignonese ufficialmente era finita da decenni) e uno che era stato eletto per sanare lo scisma, Giovanni XXIII, ma che aveva finito per creare ancora maggiore confusione.
Braccio, capitano di ventura e quindi un mercenario, offriva i suoi servigi ora all’uno ora all’altro dei contendenti cercando, più che fare gli interessi altrui, di tessere la tela di un suo possibile regno “incastrato” fra Napoli e Roma. In questo gioco di sponda Braccio, quando appoggiò Alfonso d’Aragona che la Regina Giovanna II aveva inizialmente scelto come erede, riuscì a farsi nominare Principe di Capua e governatore d’Abruzzo. Lo scisma di Occidente fu sanato, se pur fra mille contrasti, solo nel 1417 dal Concilio di Costanza, che nominò papa Martino V.
Il primo problema che Martino V si pose fu quello di ricostituire un forte Stato Pontificio e ristabilire l’ordine a Roma che era stata più volte conquistata e saccheggiata da vari pretendenti, fra cui anche Braccio.
Il papa prima si servì di Fortebraccio per riconquistare alcuni suoi territori ma quando si accorse che gli obiettivi del condottiero erano altri cambiò “cavallo” e convinse la regina Giovanna II a mollare Alfonso d’Aragona (appoggiato da Braccio) e scegliere come erede Luigi III D’Angiò. Cosa che avvenne ufficialmente nel luglio del 1423 quando Fortebraccio aveva già assediato L’Aquila. Ma perché cominciò quell’assedio? Per capirlo meglio bisogna risalire al febbraio-marzo del 1423. Giusto 600 anni fa.
Giustino Parisse
Nell’immagine di copertina: I condottieri Braccio da Montone e Jacopo Caldora si fronteggiano con i loro rispettivi eserciti sotto le mura dell’Aquila, davanti alla Porta Barete. L’immagine di un anonimo miniaturista aquilano è conservata nella biblioteca comunale Augusta di Perugia.