La città medievale, paradigma della storia italiana

da | Città

«L’urbs (la città fisica) sono le mura, ma la civitas (la città intesa come cittadinanza) non sono le pietre ma la gente che la abita». Rileggere queste parole delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (560 ca-636) dà le vertigini. Proprio per la sovrapposizione tra questi due mondi distintivi della città medievale: composta da un lato da mura, torri e porte, che compongono l’elemento spaziale di separazione tra ciò che è concepito come urbano e ciò che non lo è. Mentre, dall’altro, emerge, in tutta la sua potenzialità, la città degli uomini, con i loro stili di vita, le loro sensibilità, il loro sentirsi diversi in quanto cittadini. Perché in città si respira, specialmente nel Medioevo della rinascita, dopo il Mille, un’aria nuova e diversa. Di raccordi. Di solidarietà. Di possibilità che altrove è impossibile ritrovare.

Un clima che Dante Alighieri, nel Convivio, definisce di «vicinanza», perché, sottolinea, «come dice lo Filosofo (Aristotele) l’uomo naturalmente è compagnevole animale». E la vicinanza dove si può esprimere meglio se non in città?

Di questa città medievale occorre sempre riparlare. Soprattutto per l’Italia. Per un motivo ovvio che spesso si dimentica. Lo metteva in luce Carlo Cattaneo già nell’800. La città, sosteneva, è «l’unico principio per cui possano i secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua. Senza questo filo ideale, la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell’assidua composizione e scomposizione degli stati».

La città medievale, insomma, come paradigma della storia italiana, come fil rouge da cui mai discostarsi. Perché senza di essa, senza il ricorso al suo ricordo, alla sua storia, lo spirito civile non può che «ricadere, contristato e oppresso dal sentimento di una tetra fatalità».

Su questa base, proviamo per un attimo ad immaginarlo un Medioevo italiano senza le città. Senza i suoi comuni. Senza le grandi innovazioni di Genova, Venezia, Firenze. Senza le grandi capitali di respiro europeo, come Napoli, Roma, Milano. Senza L’Aquila, nata proprio nel XIII secolo. Esercizio impossibile…

Ma non pensiamo solo ai fulcri dello sviluppo medievale. Cosa sarebbe il nostro territorio senza la miriade di mille campanili che ancora contraddistinguono la nostra identità e la nostra specificità nazionale, tanto a Nord quanto a Sud della Penisola?

Luoghi dove in passato, come scriveva Sabatino Lopez, si viveva dello stimolo «che proviene dalla convivenza di persone di diversa origine, dalla coesistenza di professioni, di classi sociali, di produzioni economiche». Un miscuglio, proseguiva, «infinitamente variabile nella sua composizione», che rendeva ogni città un ente unico e inconfondibile, «un fattore di accelerazione e di progresso in ogni campo».

Ripensare a questo modello medievale, seguire questo filo, riconsiderare questo «organismo pluricellulare vivente» nel quale avevano la chance di convivere, spalla a spalla, l’umile carpentiere con Boccaccio o Giotto – gente di città per eccellenza! -, è dunque tutt’altro che una fatica inutile. Anzi, aiuta a ribadire tanti aspetti della nostra modernità, di quello che siamo oggi.

Riprendere quello stato d’animo, rielaborarlo con i nostri occhi contemporanei, diventa allora uno sforzo di arricchimento generale. Con una riflessione sulla città che va rafforzata, con iniziative che si aprano ad un pubblico quanto più ampio possibile.

Per evitare il pericolo dell’oblio. Della perdita di identità. Dell’abbandono dei monumenti e della bellezza del decoro urbano all’incuria dell’assenza di memoria. Perché, come diceva mago Merlino nel film Excalibur, la grande maledizione degli uomini resta sempre la stessa, fatale: dimenticare.

Amedeo Feniello