L’Aquila angioina

L’Aquila angioina

La nascita della città dell’Aquila per mano di Corrado IV e la sua distruzione a opera di Manfredi di Svevia suscitarono grande impressione nei contemporanei attenti alle vicende dell’Italia meridionale. Nel 1254 la città era sorta tramite sinecismo, ovvero accogliendo al suo interno gli abitanti di più di settanta villaggi e insediamenti dell’Abruzzo nord-occidentale, dando vita in breve tempo a un centro urbano capace di ritagliarsi una posizione dominante in quella regione frontaliera. Questa ascesa era avvenuta a scapito dei baroni della zona, ma anche di Rieti, che pur essendo città pontificia aveva fino ad allora esteso la sua influenza su buona parte dei territori in questione. Si era quindi giunti a uno scontro, nel 1257, che aveva visto L’Aquila prevalere, dando prova di capacità militari non indifferenti, spiegabili solo con un’ampia partecipazione da parte della nobiltà minore al progetto sinecistico.

Una città, dunque, alla cui crescita concorrevano tutti gli strati della società, dai vassalli liberati per l’occasione ai contadini liberi, dai mercanti ai cavalieri. La distruzione manfrediana, nel 1259, pose fine a quest’esperimento. Saba Malaspina, in particolare, descrisse la vicenda con parole immaginifiche. Nel racconto del cronista, L’Aquila, orgogliosa come l’uccello di cui portava il nome, abituata a elevarsi sopra i suoi vicini, adesso plumis nudata solo deprimitur: privata delle sue piume, sarebbe precipitata al suolo – letteralmente, dal momento che i suoi edifici furono dati alle fiamme e fatti crollare, mentre la popolazione veniva dispersa e costretta a tornare alle antiche dimore.

Si trattò, tuttavia, di una parentesi, per quanto non di breve durata: sette lunghi anni passarono, infatti, prima che la battaglia di Benevento, nel 1266, portasse un nuovo sovrano sul trono, il francese Carlo d’Angiò. Sotto di lui, L’Aquila tornò a risollevarsi. Il sovrano, ben consapevole delle debolezze del sistema difensivo del Regno che lui stesso aveva conquistato, organizzò una profonda ristrutturazione delle strutture preposte al controllo della frontiera, assegnando alla rinata L’Aquila un ruolo di controllo e supporto, una chiave di volta fondamentale per gli equilibri della regione. La nuova centralità acquisita e il favore del sovrano – ricambiato prontamente già nel 1268, supportandolo in occasione dell’invasione di Corradino di Svevia, ultimo erede di Federico II – permisero alla città di svilupparsi rapidamente, mentre il posizionamento strategico lungo la valle dell’Aterno, in un’area priva di centri urbani concorrenti, garantiva possibilità economiche fino ad allora mai sfruttate. Anche in campo religioso L’Aquila vide riconfermata la sua importanza (già attestata dall’ottenimento della sede diocesana e dal rapido attestarsi in città dei principali ordini religiosi) in occasione dell’elezione al soglio pontificio di Celestino V, incoronato presso la basilica di Collemaggio.

Furono anni di crescita economica febbrile, di grandi opere portate avanti con slancio dalla cittadinanza (il palazzo regio, la cattedrale, l’acquedotto, il circuito murario, l’ampliamento delle strade principali, selciate insieme alla piazza del mercato): tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento la città seppe infatti approfittare della crescita dei flussi commerciali lungo la cosiddetta “via degli Abruzzi”, che univa Firenze a Napoli aggirando Roma, per imporsi come importante snodo economico – anche grazie alla fiera della Perdonanza, concessa alla città dallo stesso Celestino nel 1294 – e fin dai primi anni del Trecento i ceti mercantili e artigiani avevano dato vita all’articolazione delle Arti, attestate per la prima volta nel 1327, in occasione della traslazione in città del corpo del pontefice.

Allo sviluppo economico si affiancarono, tuttavia, anche scontri e lotte intestine. Le comunità fondatrici, che durante la ricostruzione angioina si erano trasferite in città edificandovi le proprie chiese, piazze e fontane, avevano portato con sé anche i propri conflitti, legati spesso ai confini di pascoli, boschi e altri beni comuni nelle località di provenienza. Se questi scontri potevano portare all’espulsione dalla città anche di centinaia di persone, almeno temporaneamente, un problema altrettanto grave era rappresentato dalla competizione per la supremazia tra le fazioni nobiliari. Il primo a ottenere il dominio quasi completo sulla città fu Bonagiunta, dell’antica stirpe dei de Poppleto, sconfitto infine nel 1339 da un’alleanza tra le famiglie de Roio e Camponeschi. Eliminato Bonagiunta, le due famiglie si scontrarono tra loro e furono infine i Camponeschi a trionfare, con Lalle I, che divenne di fatto una sorta di criptosignore cittadino.

Fu proprio durante il governo di quest’ultimo che L’Aquila si trovò ad affrontare la seconda, grande crisi della sua vita. Nel 1347, infatti, mentre Luigi d’Ungheria scendeva in Italia con un esercito, intenzionato a conquistare il Regno di Napoli per vendicare il fratello Andrea, marito della regina Giovanna I e assassinato in circostanze poco chiare, Lalle Camponeschi spinse L’Aquila a ribellarsi e a sostenere il sovrano ungherese. Fu una guerra senza esclusione di colpi, con assedi e grandi battaglie, complicata dallo scoppio della Peste Nera e da un gravissimo sisma che nel 1349 fece crollare le stesse mura cittadine. Eppure, a dispetto anche della sconfitta di Luigi d’Ungheria, quello stesso anno, L’Aquila ne uscì vincitrice, i suoi crimini perdonati dalla regina Giovanna e il suo condottiero, Lalle Camponeschi, confermato di tutti i titoli che aveva ottenuto durante il conflitto.

I rapporti con la Corte si erano tuttavia inesorabilmente incrinati, e nel 1354 il criptosignore fu fatto uccidere per ordine di Luigi di Tarano, fratello del re. Agli aquilani toccò ancora una volta reinventarsi e il risultato fu il Governo delle Arti, in cui al camerlengo si affiancavano i rappresentanti dei letterati (notai, medici, dottori in legge), dei mercanti (prevalentemente i lanaioli), degli orafi, dei pellettieri e dei mercanti di bestiame – in cui appare evidente la preponderanza degli elementi legati alla pastorizia transumante e al commercio della lana, vero motore dell’economia aquilana. Nella seconda metà del Trecento furono proprio questi elementi a trainare la ripresa, dando avvio a una nuova fase di crescita economica (favorita anche dall’innesto di nuclei familiari stranieri, in primo luogo ebrei) che impose ancora una volta L’Aquila come crocevia imprescindibile, punto di transito da e verso l’Italia settentrionale – di fatto la seconda città del Regno dopo Napoli, la capitale, anche grazie al ritorno sulla scena politica locale dei Camponeschi, che avrebbero dominato ancora a lungo la città, permettendole di sopravvivere alla sua terza, enorme crisi: l’assedio di Braccio da Montone. Ma questa è un’altra storia.

Andrea Casalboni